Il Foglio Dicembre 2013
DICEMBRE 2013
IL BUON PASTORE
di P. Agostino Bartolini
“Io sono il buon Pastore, conosco le mie pecore ed esse conoscono me, come il Padre conosce me, io conosco il Padre ed offro la mia vita per le pecore”. (Giovanni dal Cap. 10).
Prima di andare ad esaminare la parabola del Buon Pastore, come la descrive il Vangelo di San Giovanni, e prima di meditarla per conoscerne meglio il profondo significato del messaggio , ritengo utile ritornare, con la memoria, agli usi, i costumi e valutazioni della gente del Medio Oriente ai tempi di Gesù. Allora la pastorizia era molto diffusa, era molto praticata, era molto apprezzata. Essere pastore significava essere qualcuno, avere un patrimonio da coltivare, da difendere e da promuovere; significava esercitare una professione importante, possedere gregge ed armenti era un sicuro titolo nobiltà e di ricchezza.
Da allora ai tempi attuali vi è tanta distanza, le cose sono molto cambiate. A quei tempi, tanto da noi lontani, la pastorizia veniva esercitata anche da alcuni re , per questo venivano chiamati “re pastori”.
Andiamo ad esaminare – nei suoi particolari – la parabola che Gesù ci riferisce riguardo a sé medesimo.
Per far capire agli uomini quanto Dio ama Gesù ha scelto appositamente questa espressiva immagine.
Il gregge, nel caso che stiamo esaminando gli uomini, sono la ricchezza di Dio, il patrimonio di Dio, l’oggetto delle sue attenzioni, delle sue premure, della sua azione, del suo amore.
La parola “conoscere” che il brano evangelico adopera significa “amare” perché non si ama se non si conosce.
Lo spiega Gesù dicendo: “Come il Padre conosce me ed io conosco il Padre”. Per il Padre Gesù è il figlio prediletto nel quale ha riposto le sue compiacenze. Per indicare l’amore grande di Dio verso l’intera umanità, Gesù a Nicodemo, che è andato a trovarlo di notte, dice: “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il figlio suo nel mondo, non a condannarlo, ma a salvarlo affinché chi crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna”.
Il vocabolo “credere” qui ha valore di accettare pienamente, di amare e di obbedire. Il Pastore degli uomini è Dio, il Padre e Gesù sono una cosa sola perché l’uno è nell’altro.
Anche i profeti dell’Antico Testamento definiscono Dio pastore del suo popolo. Per tutti riportiamo, qui appresso, un salmo che è uno splendido inno a Dio-Pastore, classico dell’Antico Testamento. Ascoltiamo anche noi, attentamente, e cantiamo con devoto amore: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquilli mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammini, per amore del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone ed il vincastro mi danno sicurezza. Davanti a me prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici, cospargi di olio il mio capo, il mio calice trabocca. Felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita”. (Salmo 22, 1-6).
Il bastone del pastore non è per incutere timore al gregge, ma per la sicurezza, per la difesa del medesimo. Nel bastone del pastore del Vangelo possiamo vedere la croce di Cristo, strumento da Lui scelto e adoperato quale arma contro le tenebre, le forze del male, strumento di redenzione.
I pascoli erbosi a cui il pastore conduce il gregge sono il pane della verità, la Parola di Dio, il santo Vangelo: “Non di solo pane vive l’uomo , ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.
I suddetti pascoli sono pure il corpo e il sangue di Cristo, pane di vita e bevanda di salvezza; l’Eucarestia: “La mia carne è veramente cibo, il mio sangue è veramente bevanda. Io sono il pane vivo disceso dal cielo , chi mangia questo pane ha la vita eterna”.
Il buon pastore ama il suo gregge e lo ama tanto fino a dare, per esso, spontaneamente, la propria vita. Il pastore – per difendere e salvare il suo gregge – affronta i lupi e le bestie feroci che lo insidiano e lo aggrediscono. In questa lotta egli riporta ferite gravi che lo distingueranno per sempre, ferite che non rimarginano, che resteranno segno visibile ed incontestabile del suo grande amore.
Il pastore affronta liberamente la morte, perché egli sa che solamente così potrà vincerla e sconfiggerla definitivamente. Ricordiamo che il pastore è Dio, padrone assoluto della vita e della morte: “Per questo il Padre mi ama: perché offro la mia vita per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando l’ho ricevuto dal Padre mio”.
Il gregge di Cristo è tutto il mondo, se non di fatto, ma per vocazione divina sì. Cristo è il pastore che va in cerca della pecora smarrita; la pecora smarrita è l’intera umanità, è ogni popolo, è ogni uomo.
Cristo è venuto per ricercare ciò che era smarrito, per ritrovare ciò che era perduto. Egli è venuto a compiere la volontà del Padre; la volontà del Padre è che ogni uomo giunga alla conoscenza della verità, alla pratica della carità, al possesso della vita eterna.
Cristo è venuto per abolire ogni legge di discriminazione, per demolire ogni muro di divisione e per fare di tutti gli uomini, di tutti i popoli, un popolo solo, il popolo di Dio.
Pertanto, la premura del buon pastore si rivolge anche alle pecore smarrite, tutte le pecore smarrite, Egli va in cerca ed una volta trovata la pecora che si era perduta, l’avvicina, se la prende e mette sulle spalle, la riporta all’ovile, chiama tutti i vicini e fa festa con essi dicendo: “Rallegratevi con me perché ho ritrovato la pecora che si era smarrita. Vi dico che si fa più festa in cielo per un solo peccatore che si pente che non per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza”.
Per manifestare agli uomini la sua azione di salvezza universale, termina la parabola con le parole: “Ed ho altre pecore che non sono di questo ovile, anche queste devo ricondurre, ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo ovile ed un solo pastore”.
E’ tanto grande l’amore e la premura del pastore verso il suo gregge che quasi si immedesima e si identifica in esso.
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